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“Rocky Mountains”

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ROCKY MOUNTAINS @ Teatro Porta Portese: il Cinema a Teatro

          Il Teatro Porta Portese di Tonino Tosto è ormai una fucina d’idee. Proposte variegate. Con tre sale riesce ad accontentare tutti i gusti. Qui si dà spazio ai cinefili appassionati del Western. Dal 4 al 6 febbraio ha debuttato "Rocky Mountains".

 


"Una pièce scritta per il cinema"


               La pièce scritta da Stefano Jacurti, sembra pensata per il cinema e forse lo è. Magari è solo perché non siamo
troppo abituati a vedere certi generi a Teatro. È come se cinema e teatro godessero e soffrissero dentro comparti stagni dove rimanere e progredire. Ma Jacurti (appassionato ed esperto del genere) pensa bene di affidare il suo lavoro a un regista visionario come Alessandro Iori, che ama sperimentare. Provare. Muoversi da certe acque stanche. Iori l’avevamo già recensito in “Ungra la guerriera” una commedia fantascientifica che proiettava il pubblico in un lontanissimo futuro. Mi pare 4000 e qualcosa…

 


"L'orso e il Western al Teatro Porta Portese"
 

             La scena si apre al pubblico con l’immagine di un orso. Il suo bramire annuncia da subito e senza rimandi inutili, quella che sarà l’ambientazione dello spettacolo. L’orso insidia la vita. È portatore di pericolo e morte. Dopo il futuro, Iori sceglie il passato, anche qui assai lontano: siamo nel 1830. Sembra che il presente non stimoli più il regista. Non è neanche quel Western al quale Sergio Leone ci ha abituato: è un pre-west. È l’autentico Selvaggio West. I personaggi sono ancora più ruvidi: simili a quell’orso che tornerà nella storia come una minaccia. Come una presenza oltre la caverna dove si cerca il rifugio al di qua della stretta feritoia. Dove si conserva la vita. La pièce ci parla dei “Trappeur”: cacciatori, esploratori che battevano (armati) le alte montagne del nord dell’America. Le famose Montagne Rocciose, che hanno fomentato, qui e non solo qui, la fantasia di autore e regista. Si cacciava per sfamarsi. Per le pelli di castoro e opossum: preziosa merce da barattare con tutto il resto. E forse proprio con qualche pregiata pelle, il trappeur Joseph, baratta una giovane squaw: Tesah. La reclude come “cosa” nella caverna perché adesso gli appartiene. Per cucinare. C’è una scena forte: quando il trappeur la possiede e monta come una giumenta (scena edulcorata dal regista), che ci restituisce il senso di questi personaggi che convivevano con la cruda verità della natura. Dove si possedeva poco e quel poco occorreva difenderlo ogni giorno. Quel selvaggio west viveva fuori e dentro gli esseri umani. Il trappeur va su tutte le furie quando scopre che ha comprato merce difettosa: la sua squaw non è purosangue. È una sporca sanguemisto. È la stessa rabbia che potrebbe avere il padrone di un maneggio.

 


"Il Western, epoca graffiata dal tempo"
 

             C’è un’attenzione alla terra che la donna chiama “Grande Tartaruga”. E poi c’è quel silenzio che incombe sulla storia e fa paura più di un feroce urlo, perché non avverte. Dietro un silenzio
si può nascondere ogni cosa e d’ogni misura. Qualsiasi pericolo. I
personaggi convivono con la loro atroce solitudine fatta di vuoti e paure, nascosti dietro sguardi fieri e fermi. Mistico come nei migliori racconti: Jacurti introduce la figura enigmatica dello Sciamano che viene in sogno a Tesah a predire il futuro. Quello che sarà come qualcosa d’ineluttabile e assoluto. È tutto un quadro di un’epoca graffiata dal tempo dove uomini dalla lingua biforcuta parlano con rade parole e gesti decisi. Anticipano i loro coltelli e pistole affilate alle parole perché li credono di gran lunga più eloquenti. C’è in questi personaggi l’esperimento primigenio della bugia, ma Tesah si accorge quando occhi e parole non sono bene sincronizzati sulla nota della verità. È una lingua doppia. È una falsità che non conosceva prima. Tesah impara la lingua dal suo carceriere. Si fa capire e capisce, poi offre quell’atto di amore che è cacciare per Joseph, quando lui rimane offeso. Ferito per colpa di un combattimento andato male. Il cuore duro come pietra del trappeur si scioglie, tanto da innamorarsi della squaw e probabilmente della vita. Per lui, adesso, Tesah è come un falco che gli vola dentro.

 


"Un western rispettoso"
 

               La pièce predilige i rimandi storici e trascura lo sviluppo drammaturgico. Ma questo è comprensibile quando si ha tra le mani un fatto storico da evidenziare. Il bel finale è scontato: c’è il rude che s’innamora della bella. Nella battaglia vince il buono o chi è deputato a esserlo. Diventarlo. Si ha la meglio anche sull’orso. È tutto scritto e anticipato dalla lunga tradizione di questi racconti che hanno alimentato tanto cinema: il tenebroso, dunque, scende da cavallo e acquista sembianze umane. Depone le armi in un gesto di armistizio con gli altri. Con la vita. L’autore ha voluto rispettare lo stile. In ogni caso lascia decidere il pubblico: Che cosa farà Tesah? Anche lei s’innamorerà di Joseph o chissà cosa… Non si sa se è voluto il finale aperto, ma comunque, specie in
questo periodo così pericoloso per le donne, ci sembra che la commedia sia un anche un omaggio alla forza e coraggio delle donne. La procreatrice di vita sa difendersi e difendere quell’uomo che la natura gli ha chiesto di fabbricare. Sa cambiare il destino e sa reagire con il suo arco teso e frecce puntute. Non è solo mero soggetto passivo. Non subisce silenziosamente. E lo fa prima col coltello, poi ringhiando come un cane e poi cacciando i castori fuori dalla caverna.

 


"Recitazione troppo didascalica"


            Ci piace Laura Ranghi: sembra avere la fisiognomica giusta. I gesti sono calibrati: intrisi di quel terrore che una donna potrebbe avere quando è rapita o comprata da un orco. Recita con gesti e parole. I costumi ci piacciono tranne quello della squaw che sembra troppo abbondante e pulito. Le pelli sullo sfondo ci mandano subito a quel selvaggio west di chi metteva trappole. La scelta delle musiche è giusta.
La pièce è godibile e di buon livello ma tuttavia la recitazione non ci rapisce: è a tratti didascalica. Sempre trattenuta. Gentile per quel mondo atavico. Poco coinvolta e coinvolgente l’interpretazione di Stefano Jacurti e Vincenzo Sartini. Attori e regia avrebbero dovuto osare di più. Spingere dentro certe note bestiali per riesumare quei personaggi della seconda metà dell’Ottocento. Rimangono spesso davanti o di tre quarti verso il pubblico e questo ci distrae da quella trasposizione di vita e cinema di cui la commedia avrebbe giovato.
               Comprendo che non è uno stile semplice da portare in scena quindi complimenti!

 

Salvo Miraglia per "Il gufetto"

11/02/2022

 


"ROCKY MOUNTAINS" spettacolo teatrale
Testo di Stefano jacurti
Regia Alessandro Iori
Con Stefano Jacurti Vincenzo Sartini e Laura Ranghi
Associazione Culturale Communication’s Wave

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